In memoria di Ferruccio Laffi

Settembre 2022 

In cammino verso Monte Sole 

Sono le sei e mezza del mattino, io sono ormai sveglia da mezz’ora perché, nell’ostello in cui mi trovo, mi è impossibile dormire: i letti sono scomodi e il sacco a pelo mi fa sentire troppo caldo, quindi preferisco stare sveglia e ammirare il soffitto giallastro della mia stanza mentre penso a quanto dovrò camminare oggi e alle persone che dovrò incontrare durante il cammino. 

Persone che hanno tanto da raccontare, persone che ogni giorno si trovano a dover fare i conti con un passato di violenza e di massacri vissuti sulla propria pelle, mentre io invece mi lamento perchè il mio materasso è scomodo… 

Sono le undici e mezza del mattino, io e il mio gruppo di amici siamo in cammino ormai da un paio di ore, la fatica è tanta ma la voglia di arrivare a Monte Sole è più grande della nostra stanchezza e continuiamo a camminare senza lamentarci e senza parlare, per tenere quel poco di fiato per le salite che dovremo affrontare. 

Mentre cammino, osservo i miei compagni e mi sembra che nessuno di noi sia veramente cosciente del luogo verso cui stiamo camminando, dell’importanza che ha avuto e dell’importanza che ha ancora oggi. 

Io, in cuor mio, sento di avere una grande responsabilità, ma questa grande responsabilità mi fa provare una tale insicurezza che ancora mi chiedo: “Ma io sono davvero pronta a raggiungere questo luogo? Ho davvero capito che Monte Sole non è solo una delle tappe del mio cammino, ma è anche luogo di una grande strage che ha coinvolto molti civili?”- a queste domande non credo di avere ancora una risposta. 

Sono le dodici in punto, siamo arrivati a San Martino, primo luogo che si incontra giungendo da Grizzana Morandi: qui ci siamo fermati qualche minuto all’ombra di un grande albero e Don Stefano ci racconta di ciò che è accaduto in questo luogo il 30 settembre 1944: erano giorni di pioggia, a Marzabotto, ed è stata proprio la pioggia a rendere il piano delle SS ancora più violento, perché l’obiettivo dell’armata tedesca stanziatasi in queste zone non erano i partigiani, bensì i civili ed uccidere i civili avrebbe significato uccidere anche i partigiani che senza le loro famiglie, non avrebbero più avuto appoggio e protezione. Mentre ci racconta queste tristi vicende, mi soffermo su una lapide, sulla quale è scritta una poesia di Don Luciano Gherardi, l’uomo che fece verità sul tragico teatro di crimini che si è consumato su un vasto territorio di Frazioni e Comuni che oggi prende il nome di Monte Sole. 

Mi soffermo a leggere e rileggere ancora questa poesia, la leggo e non mi do pace, come se tra i versi non ci fossero scritte semplici parole ma dettagli ed io avessi il compito di scoprire questi dettagli. 

Qui, tra le mie cronache da Monte Sole, voglio lasciare scritti alcuni versi, quelli che mi hanno colpito maggiormente: 

“...Hanno memoria le querce, 

hanno memoria!

Memoria di sanguigne 

uve 

pigiate in torchi amari 

memoria di stermini e di paure 

memoria della scure 

nel ventre delle madri.” 

Ho perso il conto di che ore siano, non voglio nemmeno più accendere il cellulare o guardare l’orologio per controllare l’orario. 

Siamo a Casaglia, questa è l’unica cosa che so: davanti a noi la chiesa di Santa Maria Assunta, non una semplice chiesa ma un luogo di orrori e massacro. 

Qui, il 29 settembre 1944, cercarono rifugio circa cento civili e sapete in quanti si sono salvati? Si sono salvati due o tre bambini e qualche adulto che è riuscito a scampare alla morte perché seppellito dai cadaveri di altri civili caduti, morti sopra di loro. Questa tragedia si è consumata nel cimitero di Casaglia, dove ancora oggi, sopra la lapide di una tomba, vi sono i segni lasciati dai proiettili delle mitragliatrici, ma ciò che mi ha rammaricato di più è stato notare l’altezza dei segni lasciati da questi proiettili: i segni lasciati presentano un’altezza di bambino. 

Ora, immaginatevi dei bambini in fila, dentro ad un cimitero, con delle mitragliatrici puntate alle gambe e alla testa; ora immaginatevi nelle file retrostanti le loro mamme, i loro papà e nonni; ora immaginatevi gli spari delle mitragliatrici e lo scoppio di bombe a mano; poi immaginatevi il silenzio improvviso e la morte intorno a voi. 

Questo è quello che sto provando nel cimitero di Casaglia, questo è solo ciò che posso immaginare: pensate cosa ha significato per molti uomini e donne vivere sulla propria pelle questa violenza. 

Mentre nella mia mente si fanno spazio queste immagini truculente, sotto ai piedi sento una strana sensazione, come un brivido che parte dalla suola delle scarpe e arriva fino ai polmoni, come se anche il mio corpo ora fosse cosciente di camminare non sopra al terreno di un semplice cimitero, ma sopra alla Morte. 

Decido così di uscire e lasciarmi alle spalle il cimitero di Casaglia. 

Sono le sedici e trenta: è questa l’ora dell’appuntamento con Ferruccio Laffi: classe 1928, 94 anni e uno dei pochi testimoni attivi dell’eccidio di Monte Sole. 

Aspettiamo Ferruccio seduti in cerchio, sotto ad un cielo nuvoloso e che accenna ogni tanto a qualche tuono; lo aspettiamo in Silenzio. 

Ferruccio arriva con la sua Fiat Punto verde metallizzato e con in mano una bottiglia di acqua fresca, avvolta in un foglio di carta di giornale: ci spiega che ha appena scoperto che questo è un metodo infallibile per mantenere l’acqua in fresco. 

Sembra un uomo simpatico, ma noto subito che i suoi occhi non sembrano gli occhi di un uomo felice, quanto gli occhi di un uomo sofferente e malinconico, di un uomo che ha provato e prova ancora tanto dolore, e forse, anche tanta rabbia per le tristi vicende che ha dovuto vivere e sopportare nella sua vita. 

Ferruccio parla con noi non come un semplice testimone di una strage, ma come un nonno che racconta ai propri nipoti di un passato difficile. 

Ferruccio comincia a parlarci della vita che si conduceva nella sua piccola frazione di Marzabotto, in cui viveva con tutta la sua famiglia: diciotto persone tra mamma, papà, fratelli e qualche amico ospite a casa sua durante la Guerra.

Dopo questo primo racconto della vita contadina che conduceva la sua famiglia, Ferruccio comincia a parlarci dei suoi fratelli, anche loro vittime della guerra: ci parla di suo fratello maggiore, mandato a fare la guerra in Russia e di cui lui e la sua famiglia non ebbero più notizie ed è qui che dal volto di Ferruccio compaiono le prime lacrime; poi, ci parla di un altro suo fratello, mandato a fare il carabiniere a Pola in Croazia e anche di lui non si ebbe più nessuna traccia. 

Mentre ascolto e osservo Ferruccio parlare e divagare sulle vicende della propria famiglia, mi sembra e ho quasi l’impressione che lui faccia di tutto pur di ritardare il racconto della Sua Storia, di ciò che lui ha vissuto sulla sua pelle, delle violenze che ha subìto e degli orrori che ha visto con i suoi occhi. 

Anche Don Stefano sembra accorgersi di questa cosa e con molta delicatezza cerca di reindirizzarlo sul tema centrale della testimonianza ed è qui che comincia forse uno dei momenti più tristi e sconvolgenti del nostro cammino a Monte Sole. 

Ferruccio capisce che ora è venuto il Suo momento, il momento di raccontare la Sua testimonianza, ma prima di farlo, lo osservo e mi accorgo che Laffi fa un grande respiro e poi comincia. 

Ferruccio comincia a raccontarci di quando è scappato con i suoi due amici su per i boschi, poi ci racconta di quando, fatto ritorno dopo giorni nella sua casa distrutta dalle fiamme, non ha trovato nulla se non la morte: vicino all’aia di casa, quattordici persone tutte morte e massacrate con attorno uno scenario raccapricciante: bestie lasciate libere e galline che beccavano le budella di questi uomini uccisi, e poi suo padre, che se ne stava rannicchiato e tutto nudo; probabilmente fu l’ultimo a morire. Dopo questo racconto, Ferruccio si lascia andare ad un lungo pianto. Noi invece continuiamo a mantenere il Silenzio. 

Laffi termina la sua testimonianza raccontandoci della Liberazione di Bologna e raccontandoci che lui c’era, in Piazza, quel 21 aprile 1945 e che ha festeggiato ed è stato, lì, per la prima volta che ha capito cosa vuol dire essere liberi. 

Sono le diciassette e trenta, Ferruccio ha terminato la sua testimonianza e, dalla sua Fiat Punto verde metallizzato che lo porterà a valle, ci saluta e ci augura di non commettere più gli stessi errori. Io ricambio il saluto e dal mio volto scende una lacrima. Una sola lacrima. Laffi ci ha parlato per circa un’ora di racconti tragici e di massacri ed io tutto quello che riesco ad esprimere, lo esprimo con una sola lacrima. Dentro di me il senso di responsabilità si fa più grande: è come una vocina sottile e delicata, ma che quasi mi mette paura e che mi ricorda che di vicende come quelle di Ferruccio Laffi, purtroppo, ancora oggi migliaia di persone sono vittime: guerre di diverso motivo e interesse, guerre che si consumano in diverse parti del mondo, nei confini più contesi o nelle terre straniere che diventano motivo di massacro. 

È mezzanotte ed io non riesco a prendere sonno, ma non perché il materasso sia scomodo o il sacco a pelo mi faccia sentire caldo: ormai non ci faccio più caso. Non riesco a dormire perchè ripenso alle lacrime e alle parole di Ferruccio. 

Gennaio 2024

A Ferruccio, alla Sua Resistenza, alla Sua Marzabotto ferita dai proiettili nazisti e fascisti, all’Uomo che mi ha insegnato che a sedici anni si può imparare anche a perdonare il peggior nemico, ai Suoi occhi che il male lo hanno visto e sofferto, al Suo volto  malinconico. Caro Ferruccio, che la Tua stella continui sempre a brillare in cielo e che continui a Resistere anche davanti ai missili e alle bombe che, ahimè, ancora oggi inquinano e violentano i cieli di buona parte del Nostro Mondo.

Alessia Aidala IV C, Liceo Cevolani

ferruccio laffi